Di recente mi è stato chiesto quale fosse per me la parte
migliore del mestiere di scrivere. Ho risposto come al solito: che si fa da
casa, e che si fa da soli.
Scrivo questo post durante i giorni del lockdown italiano a
causa dell’emergenza dovuta al covid-19. Chi legge il post in questi stessi
giorni non avrebbe bisogno di questa spiegazione, ma io sono di quelli che
continuano a postulare l’esistenza di una vita dopo l’emergenza covid. Quindi specifico, in favore di qualche
lettore del futuro.
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Schermi bianchi, sale vuote |
Siamo chiusi in casa per evitare che il contagio si diffonda
e il nostro sistema sanitario collassi (o finisca di collassare in questo momento,
fate voi). Per me non è cambiato molto, visto che in casa ci stavo sempre anche
prima, per tanti, come ad esempio tutti o quasi gli altri lavoratori del mondo
dello spettacolo, è cambiato tutto.
E’ interessante come questa emergenza – che non è una guerra,
se non altro per il fatto che la guerra è sempre sbagliata – stia schiacciando
tanti di noi sul tempo presente. Un eterno presente fatto di guai, morte, insonnie, ansie,
claustrofobia, paure, file per il supermercato, mascherine, propaganda,
manipolazione, solitudine, mancanza di solitudine, statistiche.
Ci vivevamo anche prima in un eterno presente, ma avevamo almeno
l’illusione del futuro. Oggi il futuro esiste solo come ipotesi meramente
teorica. In teoria, il futuro dovrebbe esistere. In pratica, non lo sappiamo.
Nell’ambito delle arti performative e audiovisive, i discorsi
che riguardano il futuro sono piuttosto frequenti in queste settimane. Per
semplificare, in pratica facciamo “come se”.
Sviluppiamo un progetto. Scriviamo un copione. Riscriviamo
un copione. Prepariamo un bando. “Come se” ci fosse un futuro in cui quel
copione verrà realizzato, ci sarà un casting, verrà messa in piedi una troupe,
ci sarà un pubblico seduto in una sala buia a guardare un’opera proiettata su
un telone bianco o a godersi dei simpatici guasconi che saltellano su un palco.
Ma nessuno può dirci se e quando e come questo si avvererà.
Se prima vivevamo in un settore molto instabile, oggi viviamo in un settore
ipotetico. E’ un’ipotesi, il nostro lavoro. Anche il mio, che continuo a
scrivere, dunque a lavorare, ma non so bene per cosa, per chi, per quando.
La parola d’ordine è diventata “distanziamento”. Evito di
aggiungerci l’aggettivo “sociale”. Distanziamento basta e avanza.
Nel discorso semplificato della politica, il distanziamento oggi
è la strada per tornare alla normalità domani. Anche se la normalità di domani probabilmente
non assomiglierà a quella di ieri, aggiungono.
Ragionando sul futuro del mondo dello spettacolo, ho
iniziato a chiedermi se le arti la cui base è la messa in scena (cinema,
teatro, ecc) potessero sopravvivere ad un mondo caratterizzato da una distanza
di un metro (e mezzo, anche due), dalla mancanza di contatti fisici, e dalla
presenza di dispositivi medici atti a impedire di contagiarsi l’un l’altro
(guanti e mascherine).
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"Noli me tangere" |
Chiaramente ci sarà sempre bisogno di racconti, narrazione,
emozioni, catarsi, condivisione, risate, lacrime. Ogni epoca ha avuto le
proprie forme d’arte. La stessa figura dell’artista è in continuo cambiamento.
Il cinema com’è nato, così potrebbe finire. Il teatro di oggi è molto diverso
dal teatro di ieri. E così via.
Ho sentito molte ipotesi riguardo alle arti del futuro
prossimo venturo. L’adattamento ad un mondo neo-pandemico comporterà parecchi
cambiamenti. Teatri con posti distanziati, ad esempio. Spettatori con le
mascherine. Attori che recitano senza toccarsi. Attori che per recitare devono
portare un certificato medico (come nel porno). Set in cui si sta a distanza.
Niente scene di massa (vabbe’, quelle non si facevano manco prima, non c’erano
i soldi). E potremmo continuare.
Lo sport ha problemi analoghi, e la netta sensazione che
anche nell’ambito dello sport si stia facendo “come se”, non conforta le
speranze di un reale ritorno alla normalità.
Del resto anche lo sport come lo conosciamo noi è un
fenomeno storicamente e culturalmente determinato. In un futuro di paranoia
infettivologica lo sport potrebbe non avere più lo spazio sociale ed economico
di prima. Ogni fenomeno storico ha un inizio e una fine.
Restiamo sul mondo dello spettacolo.
Naturalmente, se tante situazioni potrebbero diventare tabù,
altre potrebbero sopravvivere. E’ possibile che, dato il timore di essere
infettati da chiunque e di infettare chiunque, lavorare sarà più facile su
mezzi espressivi che non prevedano forme di contatto, né dal punto di vista
della produzione, né da quello della fruizione. Come la registrazione domestica
degli audiolibri (che già esisteva). Forse leggeremo di più. Probabilmente le
piattaforme di streaming sostituiranno completamente la funzione del cinema in
sala, magari lavorando su progetti senza attori in carne ed ossa. Forse la
Realtà Virtuale conquisterà spazi di mercato più ampi.
Ma più che fare vaticinii (se non evisceri un animale sacro
non funzionano), mi interessa sottolineare un altro elemento.
L’emergenza del distanziamento ci mette di fronte ad una
verità a cui avevo dato poca importanza, finora: quanto le nostre arti sceniche
(teatro, cinema, ma anche radio, persino il terribile balletto!) siano strettamente
legate al fattore “contatto fisico”. E se non al contatto, di sicuro alla
“vicinanza fisica”.
Pensando a quell’ipotesi che chiamiamo futuro, e ascoltando
punti di vista differenti, la domanda che mi pongo è questa: ma davvero si può
immaginare di spezzare il connubio tra arti sceniche e vicinanza fisica?
Provo a ragionarci senza voler dare risposte.
La scrittura, d’accordo, è un atto solitario, e su questo ci
siamo (a meno che non siate di quegli scrittori che fanno tanta ricerca sul
campo, allora addio).
Ma tutto quello che viene dopo, se si tratta di una
scrittura finalizzata ad una qualsivoglia forma di rappresentazione, sembra prevedere (prevedeva) il contatto tra i partecipanti.
Prendiamo il lavoro stesso dell’attore. Gli attori lavorano
con la voce e con il corpo. Per quanto si possa immaginare un sistema di
certificazioni, di certo il modo stesso di recitare e di rapportarsi
fisicamente ai compagni di recitazione cambierà. Assisteremo a opere teatrali
caratterizzate da attori-monadi che lavorano sempre a distanza, tanti lampioni
parlanti piantati ordinatamente lontani? Il monologo diventerà la forma espressiva
più diffusa e fattibile (ho già i brividi)?
Il discorso sugli attori fa venire in mente tante immagini.
Non so se avete mai visto una compagnia di attori in una pausa
delle prove. A me ricordano le colonie felini. Si abbracciano. Si allontanano.
Si baciano. Litigano. Dormono uno sopra l’altro. Si accarezzano. Si isolano. Si
riavvicinano. Come le costellazioni di gattacci di strada, anche loro hanno
bisogno di prossimità e di libertà. Si tengono al caldo senza promettersi
nulla. Ma la vicinanza sembra indispensabile, almeno in certa misura.
Potranno farne a meno?
Usciamo dal sottoinsieme degli attori.
Se qualcuno è mai stato su un set sa quanta vicinanza fisica
si crea e si cerca durante il lavoro e nelle pause. Io li ho frequentati poco,
i set (lo sceneggiatore è sempre un ospite temporaneo), ma li ho osservati
sempre con attenzione. Al di là degli aneddoti boccacceschi, il distanziamento
è semplicemente escluso. L’ultima volta che sono stato su un set, per vedere
cosa si stava girando, mi sono nascosto con altre quattro o cinque persone in
uno sgabuzzino dove erano stati messi i monitor. A stento riuscivo a restare in
piedi. L’intero lavoro di quel giorno sarebbe stato impossibile in condizioni
di distanziamento o protezione.
Non dico niente riguardo a quanto sia più facile risolvere
certe fasi del lavoro di sviluppo o di produzione con una bella riunione
vis-a-vis (una, non cento, una fatta bene), ma solo perché questo è un problema
comune a tutti. Se vi state appassionando allo streaming, contento per voi, ma
è come rileggere quello che si è scritto su un foglio di carta o sulla pagina
del computer – lo schermo non aiuta.
Il pubblico. Credete davvero che possa esistere un pubblico
opportunamente distanziato?
Un pubblico in cui tutti abbiano la mascherina non sarebbe
un vero pubblico, sarebbero solo tanti individui (in odore di paranoia)
radunati in un unico posto. Non potrebbero neanche piangere o ridere liberamente,
perché in entrambi i casi si tende a portare le mani al viso, il che è
altamente sconsigliato.
Si potrebbe andare avanti, e ognuno di noi potrebbe portare
esempi dell’importanza di un contatto fisico, o anche solo di una vicinanza
fisica, in diverse fasi del proprio lavoro.
Il nostro lavoro infatti è finalizzato proprio a creare
quella vicinanza.
Un racconto dev’essere credibile e interessante, ma deve
anche creare una certa intimità con i lettori o gli spettatori. Noi non
possiamo prescindere dalla vicinanza, perché il nostro scopo è proprio di
annullare le distanze per il breve tempo della lettura o dello spettacolo.
Dunque il concetto di distanziamento ci va a toccare non solo
in termini strettamente economici – non c’è lavoro. Ma ci tocca perché nega le
basi profonde del nostro lavoro.
Il distanziamento nega infatti la possibilità di superare le
distanze tra gli individui.
E, sapete, noi facciamo proprio questo di lavoro.
Ed eccomi qui, a casa, da solo (tranne quando mio figlio sta
da me), a godermi la pandemia dalla mia prospettiva fortunata.
Il distanziamento disintegra il nostro settore dal punto di
vista economico, ma nevrotizza anche il tessuto sociale in modi che potrebbero
non essere sostenibili, per noi gente di spettacolo, ma anche per tante altre
categorie, e probabilmente per la gente in generale.
Il concetto di “superare la distanza” è piuttosto
importante, ad esempio, anche per un’altra attività umana che mi spingerei a definire
essenziale, e che infatti noialtri gentaglia di spettacolo consideriamo spesso
nel nostro lavoro, a vario titolo: la riproduzione della specie.
Interessante, vero?
A questo proposito mi fa molto sorridere che oggi sui
giornali si parli spesso della crisi delle app di incontri, e non della crisi
tout court della possibilità di un incontro. Lo vediamo quanto siamo diventati
tutti consumatori e basta? Non c’era bisogno di una pandemia, ma se non ce ne
accorgiamo neanche ora...
Infatti, spogliati in parte dalla nostra identità di
consumatori – per quanto riguarda i prodotti culturali, oppure per ciò che
attiene al turismo, ad esempio – vaghiamo smarriti in una bolla ipotetica, e in
quanto ipotetica, profondamente angosciante.
Daremo il nostro cuore a chi ci ridarà la nostra identità, e
quindi i nostri consumi o altri che possano surrogarli, e anche questo non sarà
bello.
Ma per ciò che riguarda le istanze più profonde che stanno
alla base ad esempio dei prodotti culturali? Il bisogno di condivisione
dell’esperienza umana, la necessità di trovarsi di fronte ai dilemmi della vita
organizzati in forma narrativa, espressiva, emozionale? Per ciò che riguarda
tutto questo, cosa succederà? E anche non volendo dare importanza al
particulare mio e dei miei colleghi: e per ciò che riguarda invece la
riproduzione della specie?!
Perdonatemi la prospettiva umanista, ma uno degli obiettivi
dei governi, oggi, dovrebbe essere programmare la fine del distanziamento, non
solo come provvedimento ma anche e soprattutto come nevrosi sociale. Non ho
nessun segno che, almeno nell’hic et nunc da cui scrivo, questo obiettivo stia
venendo perseguito.
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