mercoledì 20 dicembre 2017

NELL'OCCHIO DI CHI GUARDA

Fuori dal Pantages, in attesa di una cerimonia degli Oscar,
un migliaio di anni fa.
A me sembra una coincidenza interessante, ma magari sono io che mi sbaglio. Quest'anno, abbastanza accidentalmente, nel listone dei film candidati dai vari paesi come Migliore Film in Lingua Straniera agli Oscar 2018, a guardar bene si potevano trovare non uno, bensì due film italiani. Sono coinvolto in uno dei due, e cioè "The Space Between" di Ruth Borgobello, avendolo scritto insieme alla regista. Ma il nostro era il candidato dell'Australia, essendo una co-produzione per l'appunto tra Italia e Australia. Il vero candidato italiano invece era "A Ciambra" di Jonas Carpignano. 
Sia detto tangenzialmente, nessuno dei due è entrato nella shortlist dei nove nominati.
Probabilmente era già successo che ci fossero due film italiani nel listone prenatalizio dei candidati (quest'anno si è fatto il record, con oltre 90 paesi proponenti), ma rimane comunque una bizzarria dell'annata. A cui si aggiunge un'ulteriore circostanza bizzarra, finora passata quasi sotto silenzio: come film "italiani" sono decisamente... poco italiani.
"The space between", produttivamente e artisticamente, è un intreccio inestricabile di influenze e contributi molto diversi.
Prodotto da IdeaCinema, Fantastificio e Mondostudiofilm, parlato in italiano e in inglese con sottotitoli a seconda delle versioni, girato da una regista con doppia cittadinanza, australiana di nascita e di formazione, ma italiana di origini e di vocazione, "The space between" è una vera e propria triangolazione Australia-Roma-Friuli piuttosto improbabile nelle premesse, ma alla fine riuscita.
Difficile dire se sia un film più italiano o più australiano. In parte è andata come va sempre quando si ha una doppia identità: in Italia era considerato un film australiano, in Australia italiano. La ricezione del film del resto è stata molto variegata. I critici italiani ci hanno snobbato o stroncato (tranne rari) e soprattutto hanno sottolineato quanto fosse debole il copione (prendi e porta a casa!). Il pubblico femminile in linea di massima ha apprezzato. Quello maschile metà e metà. Abbiamo notizie che stia piacendo abbastanza al pubblico asiatico dei voli intercontinentali. La comunità italiana in Canada poi sembra che ci adori.
Alla fine, comunque, bello o brutto, gli australiani l'hanno considerato non solo un film australiano parlato prevalentemente in italiano, ma anche meritevole di finire nel listone. e ci siamo goduti un mesetto di gloria. Bene così.
Ma tornando a bomba: allora, Italia o Australia? E chi lo sa?

Dal punto di vista dell'identità nazionale, "A Ciambra" non se la passa meglio di noi. Il regista è un ragazzo italo-americano che parla perfettamente italiano ma con marcato accento americano (così come Ruth parla un italiano perfetto, ma con marcato accento australiano! E poi non dite che la situazione non è bizzarra, per favore...).

"...or maybe almost in the same way"
Il film è una coproduzione Italia-Francia-Germania-Usa, un patchwork quindi superiore anche al nostro. E pure a livello narrativo la situazione non si chiarisce: la storia è ambientata nella comunità rom di Gioia Tauro ed è parlata in dialetto rom con sottotitoli in italiano. Per un anglosassone poco cambia (dialetto o italiano, sempre i sottotitoli ci vanno). Ma dal punto di vista italico, be', di sicuro non stiamo puntando al pubblicone del sabato sera. Gli attori sono tutti "presi dalla vita", come si diceva un tempo, ma anche questa collocazione neorealistica non è che aiuti a definirlo "italiano", visto che filoni simili ci sono ovunque da decenni.
Io non l'ho ancora visto (viaggio con due/tre anni di ritardo per autodifesa personale), ma è un film sicuramente molto più da festival del nostro, ha avuto ottime recensioni, e ha ottime possibilità di affermarsi a livello internazionale. Non è la mia tazza di tè, in teoria e sapendone poco, ma viva la diversità.
Ma detto questo: è un film italiano? 
Un po' e un po'. Forse sì, forse no. Difficile dirlo. Non mi sbilancerei. Chiedetelo a qualcun altro.
Insomma, e chi lo sa?

Diciamolo. A rigore si fa fatica a definire "A Ciambra" un progetto paradigmatico dello stato dell'arte del nostro cinema attuale. E mica è una questione nazionalistica, di protezionismo culturale. Sono anni che rompo a tutti dicendo che il nostro cinema è troppo provinciale e poco da esportazione, e che quando esportiamo, esportiamo pizza e mandolino (e loro derivati).

Ma insomma, l'identità conta, almeno a livello espressivo. L'idea che ci sia da qualche parte un punto di vista "oggettivo" mi terrorizza. Siamo uomini. Raccontiamo storie. E lo facciamo sempre da un punto di vista. E con la nostra specifica identità (quale che sia).
Non avendo visto "A Ciambra" faccio fatica a esprimermi con precisione, ma resta il fatto che il film è molto meno italiano di qualunque dei candidati all'Oscar italiani degli ultimi anni.
Dobbiamo allora considerare la scelta di "A Ciambra" da parte del sistema-cinema italiano, come un segnale di qualche tipo? Quasi un momento di autocoscienza delle nostre strutture produttive, finalmente consapevoli della fragilità dei nostri prodotti medio-alti? O forse è il riconoscimento ad un progetto che ha avuto patenti di internazionalità (Scorsese, ecc) che lo collocano naturalmente un gradino sopra gli altri in questa specifica competizione?
Insomma, c'è qualche significato che si può estrarre come un dente sanissimo da questa scelta extravagante?
E se non fosse invece che, ancora più semplicemente, "A Ciambra" era il miglior film italiano dell'anno? E smettiamola con questa storia di appiccicare etichette nazionali ad un'arte eminentemente visiva (prendi e porta a casa, di nuovo).
Resta il fatto che come film italiano... Be', quantomeno si tratta di una produzione molto ai margini del sistema.

Naturalmente si possono obiettare tante cose a questo discorso. Il film di Angelina Jolie, ad esempio, candidato anch'esso come Miglior Film in Lingua Straniera... era candidato per la Cambogia! (E niente shortlist anche per la signora Jolie).

E' sempre successo che l'identità nazionale di certi film fosse ondivaga, almeno da quando il cinema è diventato un business in cui i soldi si trovano in giro per il mondo.
Scorrendo il listone dei 90, si vede subito che molti paesi europei con industrie medio-forti non hanno certo candidato i loro blockbuster (o blockbusterini) interni. Si candida un certo tipo di film che rappresenta una certa idea dello stato dell'arte del proprio sistema cinema, per dir così. In qualche modo, la candidatura all'Oscar di un film può costituire quasi un momento di riflessione per il cinema di un paese (sempre tenendo presente che di opere commerciali si tratta, anche quando non sono poi così commerciali...).
Quindi, indirettamente, candidando "A Ciambra", anche l'Italia cinematografica potrebbe aver espresso un pensiero autoriflessivo. Un pensiero che si potrebbe anche condividere - puntare lo sguardo su realtà periferiche del paese, guardare oltre l'asfittica filiera dell'usuale...
Puntare lo sguardo, guardare... Già, perché sempre di "sguardo" si tratta. Ed è qui che, forse, sta il vero punto della questione.

Ecco. Alla fine, nonostante il cinema sia un gran carrozzone in cui girano soldi e il processo creativo individuale non riesce mai a soffrire di solitudine, quello che resta è lo sguardo.
E' un po' quello che succede con gli attori: possono travestirsi da quello che vi pare, ma i loro occhi non mentono mai (Mister De Niro mi perdonerà, ma una faccia è sempre e solo una faccia).
Lo sguardo non si camuffa, non si tradisce, è sempre rivelatore. 
E così, a rovescio ma neanche tanto, quello che decidi di guardare, quello che inquadri nel mirino, in un modo o nell'altro, ti rappresenta, sempre.
Se metti l'occhio nel mirino, e riesci a imporre quel punto di vista, be', il film è tuo. E il tuo punto di vista sul mondo viene naturalmente fuori dalle immagini che hai prodotto.
Gli occhi dei registi di "A Ciambra" e di "The space between" non sono occhi del tutto italiani. Se esiste ancora uno sguardo cinematografico italiano, mi sa che non dobbiamo cercarlo qui. O forse sì, forse bisogna proprio cercarlo in questi punti di vista laterali. Forse lo stanno formando proprio loro. E altri come loro.
Ma è un processo in divenire, e non è senza conseguenze.
Bisognerebbe proprio chiederselo quanto sia diventato labile, incerto, svagato lo sguardo del cinema italiano, se esista ancora, se non sia ormai qualcosa che andrebbe semplicemente rinnovato, senza tante storie. Forse bisognerebbe auspicare che l'integrazione dei nuovi sguardi dentro il nostro si compia un po' più rapidamente di quanto avvenuto finora. Forse c'è da proteggere l'esistente, forse da distribuirlo meglio, forse è successo tutto per caso.
Forse, forse, forse.
Il succo è che mi stupisce che la circostanza di aver avuto due film italiani - "ma non troppo" - nel listone degli Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera non sia stata rilevata da nessuno. Io la trovo bizzarra, e chissà, forse fa anche ben sperare. Ma se non si colgono i segnali, be', a breve saremo punto e a capo.
In effetti da queste parti ci sono tante cose di cui bisognerebbe stupirsi.
E poi, tutto questo ragionare sul futuro del cinema italiano... In una fase storica in cui molti pensano che la forma-film sia sorpassata!
Be', ognuno ragiona su quello che ritiene più rilevante.
Auguriamo lunga vita al cinema italiano, allora, e se sarà "italiano ma non troppo", magari va bene lo stesso.

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