martedì 5 luglio 2016

CLOUD ATLAS: e se Miniero e Genovese fossero i nostri Wachowski?

Fino a qualche anno, sulle riviste specializzate e non, si faceva un gran parlare delle cosiddette strutture multilineariCloud Atlas potrebbe essere una buona occasione per riprendere il filo del discorso - oppure per tagliarlo una volta per tutte.
Sei linee narrative si intrecciano in questo film girato, curiosa quanto inutile coincidenza, proprio a sei mani da Tom Tykwer (quello di Lola corre), e dai fratelli Wachowski (quelli di Matrix Revolutions). Sei linee ambientate in sei periodi diversi, e tenute assieme da collegamenti testuali o attoriali più o meno stringenti.
In un futuro post-catastrofico Tom Hanks, un valligiano dedito alla propria autoconservazione, deve accompagnare una Halle Berry vestita di bianco e dunque appartenente ad una società superiore (i Prescienti) in un viaggio decisamente rischioso.

In un futuro di poco o di molto anteriore, ci viene invece rivelato il segreto della divinità adorata dallo stesso Tom Hanks: trattasi di una sorta di automa di carne che - grazie all'amore, ça va sans dire - trova la via per l'autocoscienza. Ai giorni nostri invece si svolge la storia di un anziano editore inglese che, per vendetta, viene rinchiuso dal fratello in una casa di riposo. Poi abbiamo una giornalista anni '70 (sempre Halle Berry) alle prese con uno scoop pericoloso; un giovane musicista omosessuale che aiuta un vecchio compositore egoista a trascrivere la sua musica; e infine l'amicizia ottocentesca tra un inglese di buona famiglia e uno schiavo nero. Il succo è che ogni azione che compiamo si riverbera nel tempo e influisce sul presente quanto sul futuro. Tutto è collegato, e tutto si trasforma di continuo, in una specie di superamento metafisico del concetto di morte individuale. Gli attori, opportunamente truccati, passano da una linea all'altra; e una voglia a forma di cometa fa capolino sui corpi dei protagonisti di tutte le linee, a mo' di mistico legame tra le epoche.
C'è perizia narrativa, molta convinzione, e altrettanta furbizia, in questo calderone di pastiche narrativi, in cui tante cose semplicemente non si capiscono, mentre altre sono davvero molto semplificate. La lunghezza del film è notevole, e credo che possa fiaccare anche l'anima più bendisposta. Le singole linee poi sono molto eterogenee, e i collegamenti spesso labili.
Bisogna dire che già dai primi minuti, quando si capisce a che gioco giocheremo, sullo spettatore un po' avvertito cala una certa sensazione di malinconia. Le storie sono raccontate con piglio, ma non si può non pensare al momento in cui gli autori dovranno tirare le fila di tutto questo baillamme, e il succo del discorso ci suonerà come un cinguettio social da consumare in un  clic. Insomma, già si sa che alla fine sarà molto rumore per nulla, o comunque per molto poco. Perché non può che essere così.
Il problema, allora, non diventa più quale giudizio estetico esprimere sul film. Diventa se questo tipo di multilinearità a linee eterogenee non sia di per sé una sorta di spauracchio, quasi una minaccia.
Ci sono trovate narrative che sono un po' il sogno proibito degli scrittori di tutto il mondo. Capita che qualche film riesca a metterne in fila più di una (Eternal sunshine of the spotless mind ad esempio ce l'aveva fatta, qualche annetto fa, ma vi prego non imitatelo a casa!). Ma il più delle volte l'infrazione del tabù presenta il conto.
A me pare evidente che una costruzione come quella di Cloud Atlas  debba molto a decenni di lunga serialità e di abitudine alla multilinearità. Le linee narrative intrecciate e affiancate vengono da lì; si potrebbero scomodare nobili precedenti letterari, ma è la soap ad essere il modello linguistico di riferimento.
Il punto è che, certe volte, sembra quasi che al cinema ormai non se ne possa fare a meno.
Eppure credo che esista una drammaturgia televisiva (che può essere anche di altissimo livello, e su questo ognuno faccia i propri esempi, io che sono un rompiscatole dico Un medico tra gli orsi), e ritengo anche che sia qualcosa di molto differente dalla drammaturgia cinematografica. Le commistioni sono indispensabili, le rese senza condizioni no.

Mi posso sbagliare, ma la mia idea è che Tykwer e i Wachowski abbiano confezionato qualcosa che può essere definita come "un'esperienza televisiva da vivere al cinema". Il fatto che all'origine ci sia un romanzo non vuol dire granché, se non che anche la letteratura ormai ha bisogno di ricalcare la drammaturgia del piccolo schermo (anzi, dei piccoli schermi, perché adesso molte cose le guardiamo sui PC o peggio). Cloud Atlas assomiglia così ad una serie televisiva racchiusa nello spazio di un film - o di un paio di film, per i miei parametri. Si può trovare il tutto gradevole, divertente o noioso, ma questo non cambia il quadro generale: siamo andati al cinema per vedere l'imitazione di una serie TV, o, ancora peggio, abbiamo visto alla TV un film per il cinema che imitava una serie TV. Una roba da mal di testa.

La cosa che trovo curiosa, però, è che, mettendo in piedi un progetto del genere, Tykwer e i Wachowski si siano avvicinati, dal punto di vista del rapporto col pubblico, a certe operazioni passate per le sale italiane negli ultimi dieci anni. Il nostro cinema di commedia recente ha fatto la stessa cosa, in fondo. Da Checco Zalone in giù, si è trattato quasi sempre di progetti pseudotelevisivi confezionati apposta per portare in sala un pubblico che non aveva visto altro che TV per vent'anni (strategia peraltro produttivamente logica, sia chiaro). I Wachowski come Miniero e Genovese?
Ecco dunque l'unica conclusione che riesco a trarre dalla visione un po' estenuante di Cloud Atlas: laddove si sbandiera la multilinearità con molta probabilità si sta compiendo un'operazione che ha, alla sua base, la riproposizione, mutatis mutandis, di qualcosa che ha le stimmate della serialità televisiva. Niente di male in questo, ma può darsi che la mutazione non sia poi così fruttuosa.
La domanda, a cui non so rispondere, è se queste stimmate siano o meno diventate indispensabili per portare la gente al cinema. Qualche esempio italiano ("Lo chiamavano Jeeg Robot") e qualche indizio qua e là mi fanno aggrottare la fronte con aria pensosa. Il cinema è diventato un mezzo espressivo marginale, parassitario? Ok, non dico che non ci dormo la notte, ma la questione mi sembra interessante.

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